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ORDINE PUBBLICO, CONSIDERAZIONI GENERALI
Il mantenimento dell’ordine pubblico non è soltanto un compito cruciale per chi è incaricato della sicurezza dei cittadini. Non sono in gioco soltanto le libertà e le proprietà personali, ma anche i diritti di partecipazione politica e quindi l’essenza stessa della democrazia. E questo principio vale per tutti, collettività e forze dell’ordine, che in tempi di estrema conflittualità – quali quelli attuali – rappresentano la controparte visibile, l’ultimo anello di una catena di inadeguatezze, impotenza, incapacità di risolvere problemi economici e sociali. Così che su di esse, già provate da un blocco economico e di carriera, si scaricano tensioni e ostilità quasi si trattasse di addetti alla conservazione di privilegi, che penalizzano i cittadini.
Fermenti che attraversano il Paese, allarmi che vengono dalla estremizzazione di alcune manifestazioni svoltesi negli ultimi mesi, raccomandano di non sottovalutare i segnali di disagio economico e sociale di larghi strati di popolazione, i problemi occupazionali legati alla chiusura e alla delocalizzazione di fabbriche, il malessere di precari, disoccupati e giovani, la pressione dell’immigrazione, che non possono essere considerati alla stregua di fenomeni fisiologici, frutto naturale della contingenza. La storia e anche la cronaca ci ammoniscono che basta una scintilla a far esplodere la scontentezza e convertire il malessere in violenza. Né va sottovalutata l’eterogeneità di individui e gruppi, le differenze di obiettivi e parole d’ordine, le diverse modalità dei partecipanti a manifestazioni che li coagulano, ma che, proprio in ragione di ciò, possono convergere in sbocchi violenti e nell’appiattimento su frange di professionisti del disordine, anche in considerazione del progressivo sgretolarsi delle rappresentanze politiche e sociali e della loro perdita di autorevolezza.
Le polizie di tutto l’Occidente segnalano la presenza nelle manifestazioni di attori e leader della provocazione che hanno l’obiettivo di far degenerare il confronto, come anche di elementi incontrollati che non sono motivati da un disegno politico, ma da un desiderio di risarcimento dalla marginalità che si converte in saccheggi e devastazioni.
Il diritto di esprimersi e manifestare è sacrosanto, ma è sempre più difficile discernere tra manifestanti pacifici e violenti, così come raramente il buonsenso persuade a sospendere azioni, quando è chiaro che le ragioni della protesta saranno oscurate dalle violenze.
Ed è perciò sempre più complicato per le forze dell’ordine distinguere e scegliere tra due stili di protest policing, l’uno caratterizzato da rigidità e ricorso alla repressione, l’altro da maggiore tolleranza e flessibilità, anche se il processo di democratizzazione della Polizia ci porta a preferire il secondo.
Formare, addestrare, equipaggiare le donne e gli uomini delle forze dell’ordine, prepararli al confronto con professionisti del disordine e dell’eversione, giovani, allenati all’uso di strumenti moderni e tecnologie, è indispensabile e indifferibile, proprio perché a essi è affidata la tutela dei cittadini, le garanzie e i diritti democratici, ma anche l’autorità della Polizia e la salvaguardia dei suoi uomini impegnati nel delicato compito di difesa delle istituzioni.
Non nascondiamoci che la Polizia è soggetta ad aggressioni organizzate, come nel caso della manifestazione in occasione del 1° maggio a Torino, quando frange estremiste e violente hanno attaccato ingiustificatamente lo Stato, attraverso imboscate contro le forze dell’ordine, che come sempre erano in piazza per garantire il diritto a manifestare. Un agente è stato colpito alla nuca con una mazza da piccone e per mera fortuna si è evitata la tragedia.
Di fronte alle sempre più frequenti degenerazioni delle manifestazioni di protesta, che turbano l’ordine e la sicurezza pubblica con azioni di vera e propria guerriglia urbana, emerge che il rapporto di forza tra i cosiddetti “antagonisti violenti” (equipaggiati con protezioni al corpo ed al capo a mezzo di caschi da motociclista, maschere antigas, armati con bastoni, spranghe, bombe molotov, fionde, fumogeni, grossi petardi, bombe carta arricchite con schegge metalliche e tondini, ecc.) e le Forze dell’Ordine, sta mutando decisamente a sfavore di queste ultime. Vanno perciò individuate misure e stanziate risorse per superare le criticità che affliggono i Reparti Mobili della Polizia di Stato e gli equivalenti reparti dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, che con gli attuali organici, in costante diminuzione da anni per i tagli alla sicurezza e con un ridotto equipaggiamento a disposizione degli uffici territoriali, sono al limite delle loro prestazioni. Come è dimostrato dall’elevato e progressivo incremento del numero di operatori feriti più o meno gravemente, dal danneggiamento degli automezzi in dotazione, dalle “ritirate strategiche” di intere squadre di fronte all’incalzare dei manifestanti.
La soluzione non è certamente quella di ricorrere alla militarizzazione del governo dell’ordine pubblico, caldeggiata da più parti, ma di potenziare le forze di Polizia,
incaricate della difesa dei cittadini e della salvaguardia delle istituzioni – e quindi della democrazia – attraverso maggiori dotazioni, attrezzature, strumenti, preparazione specialistica, che riaffermino l’urgenza inderogabile di investimenti in sicurezza.
Le situazioni di crisi evidenziate dai Reparti “antisommossa” italiani – di cui è emblematica la vicenda dei 200 operatori feriti in un solo giorno di scontri con i manifestanti No-Tav in Val di Susa il 3 luglio del 2011 – dovrebbero ormai imporre la modernizzazione dei Reparti preposti al mantenimento dell’Ordine Pubblico, creando vere e proprie task force “antisommossa”, sul modello delle unità sperimentate con successo in Francia, con una maggiore forza organica a disposizione, tale da poter essere utilizzata in modo proporzionale alla gravità e alle violenze messe in atto dai professionisti del disordine contro i poliziotti e le Istituzioni democratiche. Ciò costituirebbe un indispensabile deterrente nei confronti dei facinorosi che cercano lo scontro fisico approfittando, nel corpo a corpo, del vantaggio numerico e, nella distanza, della capacità di poter colpire le Forze di Polizia con ogni tipo di corpo contundente.
Nei vari teatri della contestazione, così come nelle manifestazioni di piazza ormai si impongono soggetti che mostrano di possedere un inquietante “know how”, con strumenti, tecniche, modalità, tattiche di guerriglia basate su “parole d’ordine” diffuse tramite il web, i social network o attraverso la rete satellitare dei telefoni mobili. Il contrasto di questi nuovi attori dell’antagonismo non può più affidarsi alle sole cariche di alleggerimento ed all’uso dei lacrimogeni, sparati con i lanciagranate da 40 mm, che vengono puntualmente rilanciati contro gli agenti come boomerang, tanto che proprio le Forze dell’Ordine finiscono per subirne gli effetti.
Le condizioni di pericolo, la consapevolezza di non poter controllare gli eventi connessa alla scarsità dei mezzi e delle forze impiegate nelle manifestazioni, sono fattori stressanti che negli scontri e nelle azioni di dispersione della folla violenta possono generare in alcuni operatori delle Forze dell’Ordine comportamenti che oltrepassano i confini dell’etica professionale rispetto alla funzione istituzionale, per reazione alle violenze subite. Gli studi condotti sullo stress da ordine pubblico concludono che quanto meno un evento è controllabile tanto più verrà vissuto come logorante nelle reazioni emotivo-comportamentali.
Al fine di ridurre il senso di isolamento che può indurre atteggiamenti, azioni devianti e abusi, vanno create le condizioni, attraverso strumenti tecnologici e normativi, nelle quali l’agente impiegato in ordine pubblico si senta tutelato in un contesto di legalità e non di scontro fisico con i violenti, anche con la redazione di protocolli di comportamento, codici di condotta in grado di guidare l’operatore in azione, allo scopo di tutelare tutte le parti in causa gli attori (agenti e manifestanti). GLI STRUMENTI NECESSARI PER FRONTEGGIARE LA VIOLENZA
È necessario dotare le nostre unità di strumenti di difesa dal lancio di petardi e di altri prodotti progettati per esplodere a terra, che, nella colpevole tolleranza di tutti i soggetti interessati, continuano ad essere immessi sul mercato.
Di fronte all’onda d’urto dei manifestanti e alle armi generalmente utilizzate, gli strumenti di difesa, a cominciare dagli sfollagente di gomma, si rivelano inadatti a sortire effetti deterrenti e inadeguati a proteggere il personale dai colpi di bastone o di spranga.
Utile si rivela l’impiego di scudi realizzati con materiali più moderni e leggeri, ma al tempo stesso più resistenti, quali il Dyneema ed il Kevlar (lo stesso materiale dei caschi da motociclista); come pure l’opportunità del ricorso a moderni erogatori individuali di Oleoresin Capsicum a getto balistico, che consentono di rendere inoffensiva una o più persone contemporaneamente, anche da 5-7 metri di distanza (peraltro di libera vendita, nonostante le perplessità a suo tempo esposte anche dalla nostra Associazione), di peso e costo contenuto, che potrebbero consentire di fronteggiare molte situazioni di ordine pubblico, limitando il contatto fisico tra polizia e dimostranti.
Andrebbe studiato l’impiego di proiettili di gomma, che, se di tipo adeguato e usati da personale rigorosamente addestrato, sono innocui, ma di grande efficacia contro i violenti (da diversi anni sono del resto in commercio munizioni calibro 12 con proiettili in gomma “a soffietto”, che al momento dell’impatto si allargano fino a raggiungere un diametro di diversi centimetri).
Ma riteniamo di dover caldeggiare anche strumenti di difesa passiva, con uniformi ed accessori paracolpi adeguatamente strutturati per la protezione degli operatori e per la sicurezza dei servizi; fondine interne per la custodia della pistola, che sarebbero un accorgimento che potrebbe garantire maggiore sicurezza all’operatore e preservarlo da tentativi di sottrazione dell’arma; fucili “marcatori”, armi ad aria compressa che sparano sfere di plastica contenenti vernice colorata, con cui è possibile individuare ed identificare, anche dopo che è cessata l’emergenza, i soggetti più facinorosi e pericolosi.
Vanno sviluppate tecnologie che, nelle fasi più concitate, siano in grado di garantire continuità e qualità delle comunicazioni radio, oggi affidate a vecchie radio portatili, ingombranti, pesanti e di ostacolo alla mobilità di chi deve intervenire nei momenti di scontro.
Con grande soddisfazione abbiamo accolto l’avvio della sperimentazione delle microtelecamere, per documentare interventi di ordine pubblico o altre azioni operative particolarmente sensibili ed a rischio, al fine sia di documentare i fatti con obiettività, evitando riprese parziali o mistificatorie, sia di predisporre prove inconfutabili per l’Autorità Giudiziaria. Si tratta di strumenti dei quali avevamo da anni sollecitato l’adozione, a tutela degli operatori della sicurezza, a garanzia di chi manifesta, a difesa della verità, spesso manomessa anche a causa dell’eccesso di mediatizzazione degli eventi, della loro spettacolarizzazione, che premia le cattive notizie e il sensazionalismo. E che spesso, in questi anni, ha scelto arbitrariamente tra buoni e cattivi, condannando le forze dell’ordine a stereotipi superati nella realtà e in larghissima maggioranza, salvo casi fortunatamente isolati e rispetto ai quali la Polizia ha sempre espresso riprovazione. RAPPORTO TRA FORZE DI POLIZIA E MASS MEDIA IN ORDINE PUBBLICO
I poliziotti vedono la loro immagine demolita dai media perché gran parte dei giornalisti ricerca sistematicamente gli errori della polizia, il gesto violento, condannando il poliziotto ad un ruolo di oppressore. La mediatizzazione delle manifestazioni di piazza e il loro impiego per secondi e terzi fini è un fenomeno sotto gli occhi di tutti, confermato dai comunicati successivi alle manifestazioni stesse da parte degli organizzatori che ne presentano i risultati in termini entusiastici di presenze militanti, moltiplicate in maniera esponenziale ai propri fini di parte.
Un’interessante analisi di Cornevin e Leclerc (2010) riferisce l’esempio dei diversi risultati sulle presenze calcolate ad una manifestazione in Francia, secondo i dati degli organizzatori (330.000), della questura (89.000), di un giornale contrario al governo in carica (76.000) e di una società straniera specializzata in questo genere di conteggi con strumenti più sofisticati (80.330). Come è stato dichiarato dalla Direction du renseignement de la Préfecture de police (DRPP), “A differenza dei sindacati che contano solo per un’ora di massima presenza e moltiplicano le cifre ottenute grazie ad un coefficiente, i nostri specialisti contano dall’inizio alla fine il corteo, dal settore più denso a quello più diradato”. È stato possibile calcolare che il margine di errore medio non supera il 10%, un dato confermato anche dalle differenze relative all’esempio sopra riportato. Assicura un prefetto: “Su questi numeri giochiamo la nostra credibilità. Se uno di noi barasse o commettesse un errore sostanziale ciò rappresenterebbe un’azione politica che coinvolgerebbe i vertici. Con tutte le conseguenze del caso per il responsabile”. Inoltre, “in polizia ci sono persone di tutte le posizioni politiche e tutto finirebbe per essere saputo”.
Anche la ricostruzione degli eventuali incidenti risente della faziosità delle parti, spesso neppure direttamente in causa, che si schierano “a prescindere” in maniera preconcetta e strumentale.
Per quanto riguarda le responsabilità dei mezzi di informazione in una gestione quantomeno parziale delle notizie relative alla criminalità e all’insicurezza – all’interno delle quali rientrano a pieno titolo quelle relative all’ordine pubblico, alle manifestazioni di piazza e alla loro gestione – sembrano concordare tutti coloro che si sono occupati del problema.
Bourdieu ricorda che non esiste discorso né avvenimento che “non debba sottoporsi alla prova della selezione giornalistica, cioè a questa formidabile censura che i giornalisti esercitano, senza neppure saperlo, prendendo in considerazione solo quello che è capace di interessarli, di «colpire la loro attenzione»”. Dopo aver analizzato i fenomeni di violenza urbana avvenuti in Francia per alcuni anni, Gremy ha evidenziato l’influenza negativa dei media. In numerosi casi, ad esempio, è stato possibile rilevare che la presenza visibile di operatori televisivi sul luogo di precedenti incidenti rilanciava i comportamenti violenti e che i giornali cercavano “il sensazionale” versando ulteriore olio sul fuoco della violenza. Relativamente ad incidenti avvenuti in alcuni quartieri sensibili, Rey scrive che “si è assistito alla co-produzione di forme, peraltro già conosciute di «violenza urbana», secondo un termine giornalistico di un certo successo, da parte di giovani di quartieri popolari, che rubano autovetture, le bruciano e provocano la polizia, e di una parte della stampa che trasforma queste scene in avvenimenti”. Lepoutre, nell’ambito di un’approfondita ricerca etnologica, che lo ha portato a vivere per quasi due anni in una cité francese, mette in evidenza che fra queste comunità esiste una certa concorrenza che “porta a una sorta di curiosa hit parade, a cui i giornali, che riportano regolarmente nelle loro colonne i diversi episodi e le sommosse legate ai giovani di questi quartieri, partecipano di fatto attivamente senza saperlo”. Katane cita “l’allarmismo di un discorso mediatico che presenta i quartieri sensibili come luoghi di violenza e di anomia, come le fonti uniche dell’insicurezza che colpisce la Francia”.
Anche i più recenti gravi episodi avvenuti nel novembre 2005 nelle banlieues francesi non si sono sottratti a questi parametri. Considerando il fenomeno di emulazione e di vera e propria competizione esistente fra i giovani dei diversi quartieri, non trasmettere le immagini degli incendi e non fornire i dati relativi al numero di autovetture bruciate avrebbe potuto contribuire a ridurre la gravità degli episodi, senza per questo niente togliere alla correttezza dell’informazione. Invece, anche in questo caso, proprietari e direttori dei mass media hanno agito in senso opposto, protetti da un’interpretazione della libertà e della democrazia che lascia molto a desiderare e svuota questi due concetti dei lori significati più profondi. Mucchielli focalizza come “la violenza sia anzitutto uno spettacolo orchestrato dai media. Che lo vogliano o no, i media non rappresentano “fatti”, ma veicolano interpretazioni o non-interpretazioni di cui bisogna chiedersi il senso”. Facendo riferimento ai gravi disordini iniziati nei quartieri periferici di Strasburgo il 31 dicembre 1995, con l’incendio di numerose autovetture e ripetutisi gli anni seguenti lo stesso giorno con le stesse modalità, evidenzia che, “secondo gli osservatori, il trattamento televisivo di questi avvenimenti, segnalato contemporaneamente dal precipitarsi su un fenomeno spettacolare e dalla concorrenza fra le grandi catene televisive, ha portato a derive stupefacenti”. Al termine della sua analisi, l’autore conclude sostenendo che “i media, che cercano spesso di presentarsi “al di sopra della mischia”, in realtà partecipano pienamente alla costruzione di questo discorso relativo alle violenze urbane. […] Non sono certo i giornalisti sul campo ad essere chiamati in causa – è ben noto che questa professione è pesantemente caratterizzata dalla precarietà del posto di lavoro – ma i responsabili delle redazioni, i proprietari della catene di giornali, coloro che decidono, i loro concorrenti nella corsa a spicchi di mercato, nella captazione dell’ascolto”.
Riferendosi all’esempio assurdo, ma non infrequente dell’addetto allo spegnimento del fuoco, che lo appicca per poter avere l’opportunità di intervenire e di mettersi in evidenza con le proprie capacità e il proprio impegno, Bourdieu sostiene che i giornalisti “svolgono il ruolo del pompiere incendiario”. Su posizioni ugualmente critiche si trova Wacquant, a parere del quale, a proposito della realtà statunitense, “checché ne dicano i media, che traggono lauti profitti dallo spettacolo quotidiano della violenza criminale, la maggior parte degli americani non ha alcun motivo di vivere nel terrore dell’aggressione”. Lo stesso autore rafforza le sue critiche, in quanto “il crimine è diventato l’argomento prediletto dai giornalisti. Esso permette ai media di fare spettacolo a poco prezzo e dunque di conservare o conquistare fette di mercato lusingando il fascino morboso del pubblico per la violenza”. Per Champagne “il campo mediatico effettua un vero lavoro di costruzione, agisce sul momento e fabbrica una rappresentazione sociale che, anche quand’è parecchio scostata dalla realtà, perdura malgrado le smentite o le rettifiche successive, in quanto questa prima interpretazione non fa, molto spesso, che rinforzare le interpretazioni spontanee, mobilita i pregiudizi e tende, successivamente, a ingrandirli”. Bourdieu ricorda che “lo spettacolo quotidiano di una periferia, della sua monotonia e del suo grigiore, non dice niente a nessuno, non interessa nessuno, e i giornalisti meno di tutti”.
A questo proposito, e in maniera molto efficace, Body-Gendrot (et al.) sottolineano l’importanza delle dicerie e delle leggende metropolitane, “nutrite da una «diarrea mediatica» che non corrisponde alla realtà”.
Brodeur sottolinea che, di tutti gli interventi attivi dei media, ne esiste uno che gioca un ruolo particolare. L’azione della stampa rappresenta uno dei fattori più determinanti nella genesi e nel mantenimento del sentimento d’insicurezza da parte della popolazione. In un documento di lavoro del 1989, la “Commissione del Québec dei diritti e delle libertà” ha dimostrato che il panico causato a suo tempo a Montréal da gruppi di skinheads era stato orchestrato da alcuni giornali specializzati esclusivamente nel reportage di episodi di criminalità. L’isteria provocata attualmente dalle bande di criminali motociclisti in Canada rappresenta l’epifania di queste pratiche giornalistiche. Lo stesso autore sottolinea che, purtroppo, le attività di polizia comunitaria non hanno alcun effetto positivo sull’attività negativa dei mezzi di informazione, e che, in effetti, l’azione allarmistica della stampa sovverte in misura apprezzabile gli sforzi della polizia comunitaria nelle sue applicazioni fedeli al modello originale per ridurre il sentimento d’insicurezza.
Parent ha analizzato i rapporti con i mezzi d’informazione intrattenuti dalle forze di polizia del Québec e parla di due gruppi che arrivano a una connivenza e ad una collusione che fanno di uno l’ausiliario dell’altro. Il rapporto giornalisti-poliziotti è anzitutto, e prima di tutto, la legittimazione dell’attività di polizia e della sua utilità. “Più i poliziotti sono diventati i crociati della lotta al crimine, più i giornalisti vi hanno scoperto un meraviglioso filone, una materia prima ideale per la vendita dei giornali. Più i giornali hanno scoperto la criminalità, più i poliziotti hanno potuto ottenere effettivi e potere; più i poliziotti sono diventati numerosi e potenti, più hanno potuto produrre criminalità; più i lettori di giornali hanno paura della criminalità, più si è potuto vendere giornali […] Cento anni dopo, questo meccanismo non è ancora logoro”. Con il passare del tempo, si è venuta a creare una nuova fonte di notizie: le manifestazioni. Manifestazioni di Neri, di studenti, di contestatori di ogni genere. “Sul posto di manifestazioni, poliziotti e giornalisti diventano concorrenti. I poliziotti vedono la loro immagine demolita dai media. I giornalisti sono percepiti dai poliziotti come provocatori, fomentatori di disordini, ricercando sistematicamente gli errori della polizia, il gesto violento, condannando il poliziotto a un ruolo di aggressore”. La già ricordata Raccomandazione Rec (2001) 10 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, prevede al punto 19 che per i poliziotti “devono essere istituIti orientamenti professionali per i contatti con i media” (Aa. Vv. 2002).
Per Loubet Del Bayle “un primo sguardo sui rapporti polizia-stampa rivela una predominanza conflittuale. Quest’antagonismo, nutrito da pregiudizi e incomprensioni reciproche, rappresenta l’aspetto forse più vistoso dei rapporti stampa-polizia, anche se queste apparenze sono in parte ingannevoli e mascherano una realtà di fatto più complessa e più ambigua, delineandosi stampa e polizia come partner in situazione d’interdipendenza. […] Questa logica di contrapposizione è accentuata dal fatto che le due istituzioni sono convinte di svolgere una missione fondamentale al servizio del pubblico e della società, essendo ciascuna delle due portata a pensare che il servizio che rende è più importante di quello svolto dall’altra. La stampa ritiene anche di incarnare il diritto fondamentale all’informazione della gente e di rappresentare un contro-potere necessario al buon funzionamento di una società democratica”. Cappelle ricorda “l’effetto «copy-cat» dei media. Secondo questa tesi, i giovani sarebbero particolarmente incitati dai servizi televisivi a partecipare a manifestazioni e/o ad imitarle. Così, la stampa attirerebbe i disordini come i germi di una epidemia”.
A proposito del gusto della polizia per la discrezione e il segreto, per Cubaynes “la polizia, che si sforza da tempo di apparire più come una amministrazione protettrice che repressiva, sopporta difficilmente sul luogo degli incidenti la presenza di giornalisti e di fotografi, i cui luoghi comuni rischiano di fornire il giorno dopo ai lettori un’immagine violenta e poco simpatica delle forze dell’ordine. Se i cronisti e i fotografi sono temuti a causa delle loro testimonianze future, i media audio-visivi lo sono ancor più in funzione della loro istantaneità”. Le critiche ai mass media, relative a loro interventi “interessati” e fuorvianti, sono bilanciate dalle opinioni di altri autori che le valutano prive di ogni base oggettiva. Se da una parte si sottolinea che la gran parte degli avvenimenti non è nota ai cittadini per conoscenza diretta, ma solo a seguito del filtro mediatico, dall’altra si evidenzia che, almeno per quanto si riferisce agli avvenimenti locali, un controllo diretto è possibile da parte di chi lo voglia. Per Macé e Peralva “il giornalista è sempre stato un mediatore del dibattito pubblico, e continua ad esserlo. L’eccessiva autonomia acquisita con questo lavoro di mediazione può renderlo sospetto agli occhi del pubblico”. Almeno per quanto riguarda la realtà francese, questi autori ritengono che “nel loro insieme, i giornalisti partecipano a una cultura del rifiuto della violenza caratteristica della società francese, e sembrano essere diventati sempre più attenti alle ripercussioni della loro attività in ambito pubblico. Ciò non vuol dire che alcuni non possano, prima o poi, partecipare al gioco dell’incitamento, ma si tratta di casi eccezionali. È anche necessario scartare l’ipotesi (non dimostrabile) secondo cui il fatto stesso di mostrare la violenza susciterebbe comportamenti imitativi. Ciò vuol dire che non c’è mai un’imitazione pura, ma piuttosto una reinterpretazione, individuale o collettiva, del messaggio violento da parte di coloro che sono particolarmente sensibili”.
Jobard (2002) riconosce al lavoro dei mezzi d’informazione una valenza positiva per quanto riguarda la possibilità di corrette denunce di casi di errori o di abusi commessi dalla polizia. “È evidente che un certo numero di episodi è stato scoperto dalla stampa nazionale grazie al carattere irrefutabile delle prove materiali fornite dalla vittima o dai suoi familiari”.
Se la raccolta di informazioni ha sempre rappresentato per le forze di polizia un aspetto basilare del loro lavoro, una loro corretta gestione riveste, soprattutto oggi, un’importanza fondamentale per tutti. È quindi evidente che, come indicato da molti autori, le forze di polizia devono migliorare la gestione della propria informazione verso l’esterno. Se ciò è fondamentale in ogni settore, lo è ancor più in quello della gestione dell’ordine pubblico in cui si è visto quanto sia strategico il ruolo della comunicazione e delle relazioni con i mass media che devono essere sempre più improntate da una corretta e costante collaborazione, nell’interesse della verità, della trasparenza, del diritto di critica, così come della imprescindibile necessità di tutelare la sicurezza. CODICE IDENTIFICATIVO – CONCLUSIONI
Per quanto sopra esposto in questa lunga disamina, è evidente che l’introduzione di un codice identificativo sulle divise o sui caschi delle forze di Polizia impegnate in ordine pubblico, nelle condizioni attuali, non assolverebbe alla finalità di assicurare requisiti di trasparenza e garanzia: al contrario, sotto l’apparente veste della deterrenza di comportamenti illegittimi, essa sarebbe uno strumento nelle mani dei professionisti del disordine, per denunciare in modo strumentale, ogni atto proprio dell’uso legittimo della forza da parte dei tutori dell’ordine.
Ripercorriamo per un momento le fasi calde e gli scontri delle ultime manifestazioni: all’improvviso gruppi consistenti, anche di centinaia di manifestanti, ben organizzati e coordinati tra loro, in punti imprecisati del corteo, si travisano indossando tutti un indumento dello stesso colore, in modo da essere indistinguibili ed irriconoscibili. Si dividono tra loro i ruoli di chi lancerà sampietrini, bombe carte, molotov, di chi affronterà le forze dell’ordine con spranghe di ferro o bastoni, solitamente usati come manici dei picconi, e di chi, pur non esercitando violenza diretta, ha il compito di coprire chi si ritira all’interno del gruppo, per confondere l’intervento selettivo da parte delle forze dell’ordine.
L’arretramento da parte di tutto il gruppo di facinorosi, coincide con le cariche di alleggerimento delle forze dell’ordine. Sono pochi i secondi in cui si svolgono queste azioni violente. È in quei brevi momenti che i violenti si svestono, approfittando della condizione momentanea, in cui il luogo è saturo del fumo dovuto sia ai lacrimogeni lanciati dai poliziotti, sia ai petardi e ai bengala utilizzati contro questi ultimi dai teppisti.
Il dismettere i panni del black bloc un attimo prima del contatto con le forze di polizia, rende per un fotogramma o per un’accusa di testimoni estrapolati dal contesto, tutti i violenti innocenti di quel che si è fatto fino a un attimo prima e tutti i poliziotti indiscriminatamente colpevoli.
Sarebbero così, attraverso il numero identificativo, centinaia i procedimenti penali aperti nei confronti degli appartenenti alle forza di polizia, in cui l’operatore avrebbe difficoltà oggettive nel dimostrare la propria innocenza e l’aver agito nell’assolvimento del proprio dovere attraverso l’uso legittimo della forza. Innumerevoli potrebbero essere anche le denunce strumentali, con ulteriori gravi conseguenze per i diretti interessati e per l’amministrazione della giustizia. Fin troppo evidenti sono i rischi unilaterali che correrebbero i poliziotti davanti ad una realtà travisabile e volutamente falsata dai manifestanti coinvolti negli scontri.
Il codice identificativo non può che essere un punto di arrivo, che si potrà concretizzare solo quando il livello degli strumenti legislativi e tecnici a disposizione, potrà garantire un contesto di legalità non manipolabile, che è presupposto ineliminabile per il godimento delle garanzie democratiche e dei diritti costituzionali.

Roma, 9 giugno 2014

ORDINE PUBBLICO RIFLESSIONI