Abitavano in una casetta modesta di Magnanville, una cittadina dell’hinterland di Parigi. Si erano conosciuti e innamorati sul lavoro, lui, Jean Baptiste Salvint, comandante di polizia al commissariato di Mureaux, lei, Jessica, segretaria amministrativa al vicino commissariato di Mantes-la-Jolie. Lui stava tornando a casa dal servizio quella notte del 13 giugno, lei dormiva nella camera vicina a quella di Matheu, il loro figlio di tre anni, l’unico scampato alla barbara esecuzione messa in atto da Larussa Abballa, 25enne francese di origini marocchine, che prima ha accoltellato lui e poi sgozzato lei, per rispondere all’appello diramato ai fedeli dal leader dello Stato islamico Abu Bakr al Bagdadi di “uccidere gli infedeli nelle loro case e con le loro famiglie”.
Salvint, descritto dai colleghi e dai vicini come un uomo “generoso, rigoroso e gioviale“, aveva alle spalle una carriera brillante e un’importante decorazione al valore per aver arrestato un uomo che minacciava la vita di un bambino. Aveva prestato servizio in passato al commissariato di Mantes-la-Jolie, cittadina natale del suo assassino, Larussa Abballa, noto all’antiterrorismo francese e schedato con la sigla “S”, che indica gli individui radicalizzati a rischio terrorismo. Già arrestato nel 2011, era stato condannato nel 2013 assieme ad altre sette persone a tre anni e sei mesi con la condizionale per “associazione per delinquere mirata alla preparazione di atti terroristici”. La sua fede incrollabile allo Stato islamico l’aveva dichiarata anche durante un video di rivendicazione postato, durante l’eccidio dei due poliziotti, sull’applicazione Facebook Live: un lungo messaggio in cui invitava a uccidere poliziotti, secondini, giornalisti e rapper e dichiarava che “l’Euro 2016 sarà un cimitero”.
Per questo non sorprende la rivelazione del quotidiano Libèration che attribuisce la strage a una vendetta, confermata, secondo il giornale, dalle parole dell’attentatore: “lui era venuto a casa mia, io adesso sono a casa sua”. E’ probabile che Salvint avesse incontrato il suo carnefice nello svolgimento delle sue funzioni di investigazione, visto il casellario giudiziario di Abballa, ricco di reati comuni commessi prima ancora della sua militanza nella rete del terrore.
Per la verità non è poi molto importante sapere se questo duplice omicidio, eseguito come un orrendo rituale, sia collocabile nella sfera di una barbara ritorsione privata, promossa a atto di fede, a gesto simbolico e propagandistico, dimostrativo della potenza di un esercito missionario ispirato da precetti aberranti, fanatici, violenti e oscurantisti.
Importa invece che se il terrorismo ha preso la forma terribile e imprevedibile di una guerra senza quartiere che trae la sua potenza intimidatrice dallo sparare nel mucchio, dal colpire obiettivi civili, quella gente indifesa che cammina per strada, va a sentire la musica in un locale, sorseggia una bibita in un bar, si reca al lavoro in metropolitana, in prima linea ci siamo sempre noi, donne e uomini e delle forze dell’ordine, che, lo dimostra tragicamente questa escalation, vengono addirittura colpiti in una macabra resa dei conti, in casa, abbattuti come animali, così come avviene per strada, nelle nostre città sempre più difficili, durante gli appostamenti, durante le rapine, mentre difendiamo la sicurezza di tutti da ogni forma di criminalità violenta.
È il nostro dovere, sono la nostra missione e la nostra professione, esercitate con spirito di servizio, abnegazione e senso di responsabilità incrollabili: nessuno di noi esita, anche a costo della vita, benché il nostro lavoro continui ad essere poco riconosciuto, le nostre remunerazioni siano inferiori ai livelli che garantiscono il soddisfacimento di aspettative legittime e le nostre aspirazioni di carriera restino spesso del tutto mortificate.
Sono i rischi calcolati di un mestiere nobile, ma difficile. In quel vecchio film un investigatore riflette sul fatto che a pochi piacciono gli “sbirri”, pochi sono inclini a familiarizzare con loro… finché non vengono minacciati o rapinati, finendo a quel punto per riconoscerne e ammetterne l’indispensabilità per la sicurezza, la tranquillità, il benessere personale e collettivo. Ed è infatti soprattutto nel momento in cui abbiamo bisogno di sentirci tutelati e protetti, che siamo disposti ad accettare che la sicurezza è anche un limite, un limite tuttavia necessario proprio per poter fruire dei nostri diritti e delle nostre libertà.
Grazie al formidabile processo di democratizzazione che abbiamo ormai da anni avviato e maturato al nostro interno, siamo una delle istituzioni che riscuotono più fiducia da parte dei cittadini, perfino in tempi così bui, quando su di noi si scaricano, come sull’ultimo anello di una catena, inadempienze, impotenza, inadeguatezza ed è più facile relegarci al ruolo di scomoda e molesta controparte di piazza.
Forse per questo ancora di più dobbiamo dolerci che il vile attentato di Parigi, quei due poliziotti morti, quella famiglia distrutta, siano stati dimenticati in fretta, come se il gesto del killer fosse venuto dopo una condanna preventiva, quella al sacrificio, al martirio, come componente connaturata e inevitabile del nostro compito.
Invece ci sarebbe piaciuto e riteniamo sarebbe stato giusto che su quei social network che minacciano di diventare gli strumenti senza controllo della propaganda del terrore, ma che sono invece anche un indicatore irrinunciabile degli umori, dei sentimenti, delle percezioni della gente, comparisse, dopo Chalie Hebdo, dopo Bataclan, qualche nastro nero, qualche foto di quella piccola famiglia di Parigi, un uomo, una donna, un bambino sorridenti e sereni, con la scritta “Je suis police”.