Oggetto: per la Corte di Cassazione il reato di oltraggio non si applica a favore dell’Agente di Polizia che interviene fuori dal servizio – richiesta di modifica della fattispecie incriminatrice.

 

Al Signor Ministro dell’Interno
Senatore Matteo Salvini

Al Signor Ministro della Giustizia
Deputato Alfonso Bonafede

Al Signor Capo della Polizia
Direttore Generale della P.S.
Prefetto Franco Gabrielli

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Come noto la Sesta Sezione della Corte di Cassazione è stata adita per risolvere una querelle in ordine al reato di cui all’art. 341 bis del cod. pen. La questione nello specifico riguardava un soggetto che in luogo pubblico e in presenza di più persone ha offeso l’onore e il prestigio di un agente di polizia della Frontiera di Como. Fin qui il fatto sembrerebbe, sic et simpliciter, sussumibile nella fattispecie penale stigmatizzata dall’anzidetto art. 341 bis c.p. In realtà, l’agente di polizia si trovava libero dal servizio. Più in dettaglio, quest’ultimo mentre consumava un caffè all’interno di un bar notava una persona palesemente in stato di ebrezza; sicché dopo essersi qualificato, chiedeva all’ebbro se fosse a piedi oppure in macchina, poiché in quest’ultimo caso sarebbe stato pericoloso per la sicurezza pubblica mettersi alla guida. A quel punto, l’imputato ha iniziato a provocare proferendo nei confronti dell’agente frasi forti che ledevano l’onore è il prestigio del tipo: “Sbirro di merda, tu non sai chi sono io, ti faccio fare una brutta fine, ti mando a raccogliere la cicoria”.

Nel merito il Tribunale ha ritenuto che l’agente di frontiera con il proprio comportamento, avesse assolto le funzioni di agente di polizia volte ad assumere informazioni al fine di prevenire pericoli, e per ciò solo trovava corretta applicazione il reato di oltraggio al pubblico ufficiale, ex art. 341 bis.
Tale postulato, secondo i giudici di merito, trovava conferma nella funzione della tutela dell’ordine pubblico e della prevenzione espressamente prevista per la Polizia di Stato dalla legge n. 121 del 1 aprile 1981. Proprio in questo segmento dell’attività di prevenzione che l’imputato, ben sapendo della qualifica rivestita della parte offesa, aveva posto in essere l’azione criminosa.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato deducendo la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’articolo 341 bis c.p. La Cassazione, quivi in commento, ha però fissato i principi per guidare la soluzione del caso di specie. Secondo i giudici di legittimità, la parte offesa, allorché fu destinataria della frase offensiva, non risultava in servizio e quindi non stava compiendo alcuna attività funzionale al servizio; benché meno, secondo i giudici, va confuso l’esercizio in concreto delle funzioni con il carattere permanente riconosciuto al servizio proprio di alcune categorie di pubblico ufficiale. Per tali motivi, quindi, non risulta integrata la condotta di cui all’art. 341 bis c.p. Fin qui il fatto e il principio in diritto enunciato dalla Cassazione.

La domanda che dobbiamo porre sotto la lente d’ingrandimento è la seguente: l’esercizio concreto delle funzioni è assimilabile al carattere permanente riconosciuto al servizio proprio di alcune categorie di pubblico ufficiale? Prima di rispondere all’interrogativo è necessario effettuare una breve analisi del delitto in parola per ricostruire un filo-rouge tra la ratio legis e gli obblighi che la normativa di settore, e, non solo, impone a questa categoria di soggetti. Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale era in passato disciplinato dall’art. 341 del c.p. Sul finire degli anni novanta il predetto articolo è stato abrogato ad opera dell’art. 18 della legge n.205/1999. Successivamente la disposizione è stata reintrodotta, con talune analogie, ma anche con non poche differenze, dall’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio del 2009, n. 94, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. La disciplina modificata pur mantenendo identità di rubrica è stata inserita con la nuova numerazione dell’art. 341-bis. Si tratta di un reato, nella specie di un delitto contro la pubblica amministrazione previsto dal capo II codice penale, ove il soggetto attivo può essere chiunque, c.d. reato comune. Il soggetto passivo deve essere invece un pubblico ufficiale. Il fatto deve avvenire in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone. Il bene giuridico che si intende tutelare è l’offesa all’onore del p.u. e il prestigio dell’ente di appartenenza. Più nello specifico la fattispecie prevista dall’art. 341 bis c.p. avrebbe natura plurioffensiva. Tale assioma si evince dalla previsione del doppio risarcimento nei confronti della persona e dell’ente di appartenenza, nonché dal duplice collegamento tra l’onore del p.u., afferente alle qualità morali, ed il prestigio, da intendersi come intimamente connesso alla funzione, più che alla persona fisica che la svolge, e tra l’offesa e le funzioni, come dimostrerebbe altresì la necessaria commissione del fatto in luogo pubblico o aperto al pubblico, la presenza di più persone e, infine, la contestualità tra l’offesa ed il compimento dell’atto. Con riferimento al quadro normativo, bisogna porre l’accento soprattutto alle innovazioni poste in essere dalla legge 94/2009 al c.d. elemento materiale del reato. Infatti, si dispone che l’offesa all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire cumulativamente e non disgiuntamente come era disciplinato in passato. Da qui la disposizione è chiara nella parte in cui annette globalmente come beni giuridici protetti “l’onore ed il prestigio”; in una eventuale disgiunzione il legislatore avrebbe dovuto inserire l’onore “o” prestigio. Occorre quindi che l’offesa riguardi necessariamente sia le qualità morali del pubblico ufficiale che la sua dignità, con riferimento alla funzione pubblica esercitata, con la necessaria conseguenza che non saranno punibili condotte risultanti lesive del solo onore del destinatario, inteso come uomo comune, senza mettere in discussione anche il prestigio del pubblico ufficiale in relazione al ruolo che egli svolge all’interno dell’ente di appartenenza.

La Cassazione in questione ritiene che l’agente di polizia non risultando in servizio non stava compiendo alcuna attività funzionale allo stesso. È cosa ben diversa, tengono a precisare i giudici, del carattere permanente della funzione con l’esercizio in concreto delle funzioni. Anche in altre fattispecie penali la Cassazione ha proceduto alla medesima interpretazione. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che: «Per la configurazione del reato di cui all’art. 651 c.p., è necessario che il soggetto il quale richieda ad altri di fornire le sue generalità, oltre che essere in servizio permanente, eserciti in concreto le pubbliche funzioni, giacché la nozione di “servizio permanente” è diversa da quella di “esercizio elle funzioni”, implicando essa che il dipendente pubblico può in ogni momento intervenire per esercitare in concreto i propri compiti, ma non che egli in concreto al momento li eserciti».

Appare chiaro che vi è una distonia tra carattere permanente delle funzioni ed esercizio concreto delle stesse. La questione non riguarda soltanto la fattispecie dell’oltraggio al pubblico ufficiale, ma anche altre fattispecie penali come detto supra. Tutto ciò però svilisce il carattere permanente della funzione a cui sono deputati agli agenti e gli ufficiali di polizia. Prima fra tutte la norma di cui all’art. 57 del c.p.p. ove espressamente indica gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, ad eccezione le guardie delle province e dei comuni che mantengono la qualifica soltanto quando sono in servizio. La suddetta norma specifica inoltre che i carabinieri, la guardie di finanza, gli agenti di custodia e le guardie forestali assumo la qualifica di agenti di polizia giudiziaria. Mentre per il personale della Polizia di Stato è l’ordinamento dell’amministrazione di pubblica sicurezza a riconoscere tale qualità. Invero, l’attività di polizia non è deputata soltanto alla repressione, ma anche alla prevenzione dei reati. In tal senso ci soccorre l’art. 24 della l. 121 del 1981 nella parte in cui dispone l’obbligo per determinate categorie di soggetti, tra cui vi rientra anche l’agente di polizia, dell’attività di vigilanza delle leggi e dell’attività di prevenzione. Anche l’art. 40, comma 2, del c.p. prevede il reato di omissione impropria al fine di stigmatizzare condotte omissive di determinati soggetti che assumano la veste di garanti. L’interpretazione sistematica delle anzidette disposizioni fa emergere proprio come non sia univoco il confine tra esercizio concreto delle funzioni e carattere permanente delle stesse. Determinate categorie di soggetti, invero, hanno il dovere di intervenire perché si trovano in una posizione di garanzia, pena la violazione dell’art. 40, comma 2, c.p. Tali soggetti quando intervengono esercitano concretamente le funzioni che i regolamenti gli impongono.

D’altronde il codice penale prevede l’obbligatorietà di intervento per chi ha un obbligo giuridico di impedire il verificarsi dell’evento. Di qui non possono risultare prive di tutela coloro i quali adempiono al proprio dovere anche fuori dal servizio, perché di un dovere si tratta se non altro quello di individuare gli autori del fatto, carpirne la dinamica, di chiamare le sale operative delle forze di polizia, di porre in essere delle annotazioni o relazioni di servizio, prevenire, per quanto possibile, la commissione di un reato in attesa degli operatori di polizia in servizio. La qualifica di agente o ufficiale di polizia giudiziaria impone un determinato dovere. Questo si può scorgere anche dall’art. 16 del T.U.L.P.S. nella parte in cui dispone che: «Gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza hanno facoltà di accedere in qualunque ora nei locali destinati all’esercizio di attività soggette ad autorizzazione e di assicurarsi l’adempimento delle prescrizioni». Non specifica la norma se detti soggetti debbano essere in servizio o meno. De iure condito sull’art. 341 bis del c.p. potrebbe intervenire un’interpretazione autentica da parte del legislatore volta a chiarire cosa s’intenda per “esercizio delle funzioni”. Inoltre, de iure condendo si potrebbe inserire, ad esempio: “le funzioni che la qualifica impone” oppure, inserire una disgiunzione tra onore “o” prestigio, al fine di punire quelle condotte che offendano soltanto l’onore del pubblico ufficiale racchiudendo in nuce anche l’offesa al ruolo che esercita in quel determinato momento storico. Anche l’ultimo comma in tema di risarcimento si potrebbe inserire “o nei confronti della persona offesa o nei confronti dell’ente di appartenenza” in luogo di: “sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima”; tutto ciò al fine di non lasciare impunite quelle condotte che mantengono un disprezzo per l’autorità mantenendo una condotta grave, considerata anche la depenalizzazione del reato di ingiuria.

Infine, l’intervento del legislatore rimane essenziale anche al fine di consentire ai soggetti qualificati, anche fuori dal servizio, di tutelare la sicurezza pubblica in quei frangenti di tempo e di luogo in cui gli operatori in servizio non possano garantire un intervento tempestivo.

Roma, 13 luglio 2018

 

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