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Signor Capo della Polizia,
in un’ormai stagionata tesina del 2004, stesa a conclusione del corso dirigenziale, un Collega scriveva:
“Il ruolo manageriale del dirigente investe attività progettuali, organizzative e gestionali, fondate su alcune caratteristiche fondamentali, quali l’orientamento dei collaboratori, la cultura del dialogo, la fluidità delle informazioni, l’economicità, la sperimentazione, la flessibilità, la responsabilità, la capacità di analisi e sintesi, la cultura dell’errore, la chiarezza, l’integrazione delle risorse e la direzione visibile. Nella gestione della struttura organizzativa, il dirigente della Polizia di Stato deve essere non solo un manager, ma anche un leader, cioè una guida e un punto di riferimento per tutti i collaboratori, creando il consenso sugli obiettivi e sulle linee di azione e incoraggiando il desiderio dei collaboratori di affermarsi e contribuire al perfetto funzionamento dell’ufficio.”
Non abbiamo voluto ricorrere ai sacri testi di psicologia e organizzazione aziendale per ricordare a noi stessi un’ovvietà: in Polizia per dirigere è necessario esercitare con equilibrio e buon senso l’arte della motivazione e valorizzazione delle risorse umane, un’arte che spesso aiuta anche a superare le deficienze di mezzi causate dalle ristrettezze economiche.
È per questo, perciò, che da sempre ci interroghiamo sui criteri di valutazione della dirigenza della Polizia di Stato e questi interrogativi, paradossalmente, si fanno più forti quando ci volgiamo a guardare quel che avviene in certi Uffici del Dipartimento della P.S..
Ci sono importanti Uffici, addirittura intere Direzioni Centrali, governati da più o meno canuti tirannelli che – forti coi deboli e deboli coi forti – dell’urlato terrorismo verbale, della vernacolare volgarità e della sconoscenza delle più elementari regole, prime fra tutte quelle della buona educazione, hanno fatto lo strumento quotidiano delle relazioni con i dipendenti (dal loro punto di vista, faremmo meglio a chiamarli sudditi) e del governo della struttura affidatagli.
Direttori di Servizio e di Divisione, Segretari più o meno particolari ma anche impiegati ed impiegate ritenuti, a vario titolo, non totalmente “disponibili” e condiscendenti sono fatti sistematicamente oggetto di pubblici improperi, villanie e cocenti umiliazioni affinché si pieghino, silenti, al volere del “sovrano”. Il piccolo tiranno, quando non riesce ad ottenere l’obbedienza pronta, cieca ed assoluta, emargina, “mobbizza” e, se gli riesce, allontana dal suo Ufficio i riottosi o, più semplicemente, coloro che non vogliono abdicare al loro cervello ed alla loro dignità.
Nessuno spazio è consentito al dialogo ed al confronto professionale sulle regole e sui metodi: troppo spesso impegnati a compiacere ad ogni costo – e comunque a mai dispiacere – il potente di turno (specie se a pagare il conto è Pantalone), codesti soggetti, forti solo d’autorità ma privi d’ogni autorevolezza, pretendono di piegare leggi e regolamenti, indirizzando pericolosamente l’azione dell’Amministrazione su rotte che, prima o poi, finiscono per incrociare le aule dei tribunali.
In tal modo i tirannelli, imposto il loro regime, riescono, in qualche caso, a dare sensazione d’efficienza, ma è solo effimera illusione. Appena si gratta un po’, ecco che esce la materia originale del fallimento.
Loro non creano, ma distruggono. Non hanno una visione evolutiva e di servizio, ma dismettono le competenze. Non si assumono delle responsabilità, ma le scansano. Non coinvolgono, ma allontanano, tanto i collaboratori che i cittadini. Non li senti mai parlar bene di alcuno, poiché loro sono il “centro dell’Universo”. Non amano quel che fanno, essendo sempre alla ricerca di una qualcosa che assumono essergli stata ingiustamente negata e che nemmeno loro sanno cosa sia bene, in realtà. In fondo sono e saranno sempre degli eterni scontenti, dei nevrotici insicuri, incapaci di vivere sereni e di far vivere bene il prossimo.
Per comprendere di cosa stiamo parlando basterebbe andare fino in fondo in alcuni recenti e meno recenti movimenti di Funzionari di cui si è parlato anche in ambito dipartimentale. Ma a chi tocca tale pur necessaria lettura? Dinanzi a questa domanda v’è la fuga dalle responsabilità. Perché farsi dei nemici se non si sa come va a finire?
Noi non pretendiamo di avere una risposta pronta, ma ci chiediamo: è possibile che l’attività ispettiva debba limitarsi ai soli Uffici “territoriali” e mai s’interessi di quel che davvero accade anche nelle Direzioni centrali e nelle loro articolazioni? E, in ogni caso, non esistano dei sensori interni che, superati certi limiti, scattino prima che a richiamare la nostra attenzione debba essere qualcuno dall’esterno?
Eppure non dovrebbe essere difficile rendersi conto quando le cose vanno proprio male: se Uffici che avevano raggiunto riconosciuti apici di operatività interna e di proiezione internazionale nel breve volger di qualche anno si atrofizzano e non riescono più a dare un concreto servizio di consulenza nemmeno alle articolazioni territoriali; se non solo i Funzionari ma anche appartenenti ad altre qualifiche, che hanno sempre svolto onorevolmente e con sacrificio il loro lavoro di alta specializzazione (i c.d. “pilastri dell’Ufficio”), chiedono simultaneamente ed in considerevole numero di cambiare aria; se si producono continuamente topiche che non si è mai in grado di fronteggiare con serenità e competenza; se le persone perbene si ritraggono dinanzi al muro dell’illogico, innalzato con gergo che più s’addice a un guappo o a una vaiassa; se sul sorriso prevale la pressione inquisitoria e sui buoni ragionamenti il sale sterile della superstizione; se perfino i cittadini si accorgono che “qualcosa è cambiato” e che negli uffici non c’è più la serenità, la fiducia e l’armonia “di prima”, significa che è proprio giunto il momento che l’Amministrazione intervenga.
Il problema che oggi Le poniamo, tuttavia, non è solo quello della difesa della dignità dei nostri mal-trattati Colleghi, signor Capo della polizia, ma quello più ampio della stessa credibilità dell’Amministrazione e del funzionamento degli strumenti d’intervento autocorrettivo.
Già, poiché questi tirannelli – che non son manager e men che meno leader – non solo fanno tanti danni diretti, ma, godendo di una zona franca, ne combinano anche di indiretti: col loro “esempio” perpetuano nella nostra Amministrazione la convinzione che si possa agire in cotal guisa non solo restando, vuoi per umano timore vuoi per quieto vivere, del tutto impuniti ma essendo anche apprezzati.
Noi siamo convinti, invece, che, proprio come ci insegnano alla Scuola, tali modi di fare siano anacronistici e del tutto controproducenti, sicuramente lontani da quello stile dirigenziale che dovrebbe connotare un moderno manager della sicurezza.
Confidiamo in Lei e nella Sua consueta attenzione affinché questa nostra convinzione non finisca per restare solo un’illusione.


Roma, 2 febbraio 2011

LETTERA A CAPO DELLA POLIZIA